Cambiare è difficile, scegliere è difficile, decidere è difficile. Ma in politica è indispensabile: non è forse questo che deve fare la classe dirigente? L’inadeguatezza della classe politica si misura dall’incapacità di assolvere il compito per il quale è stata eletta: fare delle scelte. A meno che non si consideri una scelta anche il decidere di non scegliere, di proseguire sulla strada tracciata quando le condizioni del contesto globale erano totalmente differenti.

È possibile che il mutamento del contesto internazionale sia ancora casualmente compatibile con le vecchie scelte dei contesti nazionali (compreso il nostro)? Che il contesto globale sia irrilevante per le sorti dei contesti locali? No, non è possibile. E non è accettabile che chi sa che il suo ruolo implica l’onere di compiere delle scelte non sia preparato, non sia in grado di pianificare, di gestire i processi di mediazione tipici della democrazia.

Una classe politica non può dare l’impressione di farsi cogliere di sorpresa o impreparata; non può dare l’impressione di prendere decisioni importanti per la collettività, in modo impulsivo sull’onda dell’emotività. Non si può temporeggiare per poi dover improvvisare; non si può procrastinare nell’illusione che basti ignorare i problemi perché il tempo li risolva. Farlo è spesso un segno di impreparazione, incompetenza e irresponsabilità.

È possibile che ci sia la tendenza a evitare cambiamenti nel timore che possano essere considerati impopolari, in quanto si ritiene che la popolazione abbia bisogno di conferme, di certezze.

Occorre scegliere comunque. Tuttavia questo non significa che sia necessario cambiare sempre e per forza: quando si riesce a trovare un equilibrio è buona norma cercare di mantenerlo fintanto che risulta compatibile con le esigenze da soddisfare.

Una buona routine quotidiana e un appropriato metodo decisionale permettono a ciascun individuo di raggiungere gli obiettivi prefissati o di ricalibrarli quando le condizioni lo rendono necessario. Chiunque modificasse in continuazione i propri comportamenti non raggiungerebbe mai un equilibrio e probabilmente neanche un obiettivo. Tuttavia, rimanere schiavi di una routine immodificabile senza lasciare spazio ad alcuna flessibilità ed elasticità condannerebbe all’immobilismo e all’incapacità di adeguarsi a un contesto esterno che invece è in continuo mutamento.

La difficoltà e la sfida per ciascun individuo (per ciascuno di noi) è pertanto darsi una base solida di comportamenti efficaci ed efficienti – le cosiddette buone abitudini – e periodicamente lasciare uno spazio anche per la modifica o l’acquisizione di nuovi comportamenti che ci porteranno a raggiungere nuovi obiettivi, diversi da quelli già acquisiti. Su alcuni individui, le condizioni di incertezza risvegliano il coraggio di discostarsi dai soliti schemi di comportamento e cogliere le opportunità di cambiamento.

Lo stesso dovrebbe fare la società, quando necessario: apportare delle modifiche allo status quo – le cosiddette riforme – in modo che il modello sociale possa evolvere in una forma più adatta al contesto.

Il contesto italiano, da questo punto di vista, è purtroppo contraddistinto da una forma di immobilismo che ha come contraltare una forte instabilità nei governi, che non permette di portare avanti un appropriato discorso di modifiche dello status quo, di programmare e perseguire obiettivi di medio-lungo periodo, di adattare le proprie regole alle mutate esigenze degli scenari internazionali.

Altri paesi europei sono stati in questo finora più virtuosi di noi, hanno mantenuto governi stabili nei momenti di incertezza e, rispetto a noi, hanno realizzato modelli sociali meno schiacciati sull’immobilismo, più dinamici e produttivi e più adeguati ai tempi attuali.

Ma perché siamo così restii a scegliere, a prendere atto del mondo che cambia e provare ad adeguarci? Cosa abbiamo da perdere? Oppure abbiamo qualcosa da nascondere? La classe politica (e il suo indotto) teme forse di perdere le proprie rendite di posizione; ma anche quelle rendite sono decadenti, precarie, ormai si reggono sul qui e ora, non hanno prospettiva. Anche molti cittadini però pensano di avere, nel loro piccolo, rendite di posizione da coltivare e da difendere, nell’illusione che sia utile non cambiare per preservarle.

Oppure la paura del cambiamento è solo insicurezza, che deriva dall’essere consapevoli della propria inadeguatezza nei ruoli ottenuti su base non meritocratica. Sono indispensabili competenza e conoscenza per esprimere capacità di adattamento e di visione, per risolvere problemi sempre nuovi, per orientare il contesto sociale verso il cambiamento e perseguire in modo efficiente obiettivi di medio-lungo periodo (superando anche il paradosso della burocrazia che all’origine aveva in sé l’obiettivo dell’efficienza e poi è diventata un ostacolo per il raggiungimento del fine per cui era stata pensata).

Il disconoscimento della competenza è una contraddizione rispetto alla consapevolezza che le élite dovrebbero per definizione esprimere e che pone il grosso problema della formazione della classe dirigente e del funzionamento della democrazia. Allo stesso modo la nostra classe dirigente sembra aver dimenticato il suo fine ultimo e cioè esprimere delle scelte che possano far evolvere il Paese e renderlo competitivo in ambito internazionale.

La paura del cambiamento è in genere una prerogativa della base, mentre l’atteggiamento più favorevole al cambiamento dovrebbe caratterizzare la classe dirigente. Nella nostra realtà sociale, invece, ha pervaso anche la stessa classe dirigente.

La paura del cambiamento parte dal basso ma nel nostro Paese è arrivata in alto, al vertice.