L’emergenza sanitaria pandemica ha trovato il Paese impreparato.

L’urgenza è stata affrontata in maniera improvvisata, non coesa e con misure insufficienti. L’impatto più pesante e più visibile è quello sul settore sanitario; tale settore è stato oggetto negli ultimi vent’anni di numerosi interventi (ma il riferimento alla riforma del titolo V non è oggetto di trattazione in questa sede).

Nell’ottica di renderlo maggiormente efficiente e di ridurre le distorsioni, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del duemila, le ex U.S.L. sono state trasformate in A.S.L. e sono state dotate di indicatori di performance e di una sorta di governance che avrebbe dovuto renderle più simili al settore privato, seppur mantenendo la loro natura pubblica. Tale cambiamento organizzativo in un settore così complesso e delicato ha generato delle distorsioni maggiori in quanto avrebbe richiesto come presupposto un radicato sistema meritocratico. La classe manageriale non ha saputo gestire i limitati strumenti a disposizione e anziché ottenere il risultato prefissato si è orientata nell’unica direzione del taglio delle spese spesso trascurando la possibilità o la necessità di un investimento sulla qualità e l’accessibilità dei servizi. D’altronde la stessa classe manageriale è espressione e vittima delle carenze meritocratiche del sistema pubblico.

Il confine tra interesse privato e pubblico (spesso non percepito dai singoli cittadini) può cambiare a seconda del periodo storico e della realtà del contesto del momento. Certi settori sono considerati maggiormente strategici in certi periodi storici a fasi alterne. L’emergenza fa sì che improvvisamente un settore assuma maggiore importanza strategica temporanea rispetto agli altri e quindi sovverta le priorità della classe politica, evidenziando le carenze del suo processo decisionale. Il nostro Paese si è reso responsabile di non aver investito a sufficienza su obiettivi pubblici (istruzione, sanità, difesa, trasporti e infrastrutture) e sul sistema meritocratico, generando distorsioni nel medio periodo, quali il cosiddetto fenomeno della “fuga dei cervelli” verso Paesi dove invece il sistema del lavoro segue regole più meritocratiche.

È stato sicuramente un fallimento della politica che si riflette nel settore pubblico il quale si dimostra inadeguato ad assolvere al proprio ruolo. Quando ciò si verifica, il disagio nell’affrontare le emergenze è maggiore.

Nella gestione dell’emergenza pandemica attuale, la classe politica italiana si è trincerata inizialmente dietro la massima prudenza e cioè la quarantena con relativo lockdown, per poi riaprire gradualmente ma senza nessuna reale organizzazione bensì demandando la tutela della salute pubblica unicamente al senso di responsabilità del singolo cittadino. In Giappone, al contrario, lo Stato ha provveduto all’invio dei DPI a tutta la popolazione gratuitamente, mentre l’Italia è arrivata in ritardo anche nel mettere in vendita i DPI ad un prezzo equo, lasciando spazio nel migliore dei casi alla speculazione e nel peggiore alla malavita organizzata che ha cercato di accaparrarsi in primis il business dello smaltimento dei DPI usati.

A questa situazione già di per sé difficile si sono aggiunti numerosi errori di comunicazione a tutti i livelli. Ad esempio, nei mezzi di comunicazione di massa è stato dato troppo spazio a pareri discordanti, dibattiti sterili, prese di posizione basate su esperienze soggettive (ancorché espresse da personale medico).

La classe politica ha ottenuto un secondo fallimento: confondere maggiormente i cittadini sui comportamenti da adottare, distogliendo l’attenzione dalle tematiche di maggiore rilievo orientandola a quelle di mero contorno, come l’adozione delle misure economiche quali i vari bonus e ristori. Così facendo non è riuscita nemmeno a spiegare la decisione di limitare alcune libertà individuali illustrando i vantaggi e gli svantaggi delle scelte effettuate a salvaguardia della salute pubblica. La politica non ha ben gestito questa distinzione e pertanto ha fatto emergere diverse fazioni anche in campo medico, fino a raggiungere le due posizioni estreme che in un primo momento hanno sottovalutato l’importanza e la rilevanza del fenomeno, per poi ricredersi e arrivare ad adottare bruscamente i provvedimenti più drastici.

Di fronte ad un nuovo problema, con pochi precedenti storici, la nostra classe politica ha confermato le sue lacune (di cui eravamo peraltro già a conoscenza), una capacità politica che si è rivelata in tutta la sua inadeguatezza: carenza di competenze gestionali e di metodo decisionale, che dovrebbero distinguere appunto il ruolo del politico. Al politico non si chiede certo di essere un tuttologo, ma che sia capace di assumere decisioni che contemplino tutti gli interessi pubblici, utilizzando tutte le conoscenze a disposizione per ridurre al minimo le conseguenze negative.

In questa emergenza pandemica, mentre la comunità medico scientifica si sta adoperando per studiare questo nuovo fenomeno cercando un vaccino e una cura, la politica dovrebbe tutelare la popolazione utilizzando al meglio le risorse pubbliche da destinare al difficile equilibrio tra interesse alla salute e tutti gli altri interessi pubblici.