La mail di Nadella, nominato ceo di Microsoft, merita una lettura attenta. In essa sono presenti elementi fondanti del modello culturale che ha consentito agli Stati Uniti di diventare un punto di riferimento per tutti coloro che immaginano una società in cui sia possibile porsi obiettivi ambiziosi e perseguire la propria affermazione personale, contribuendo nel contempo alla crescita economica e allo sviluppo sociale.

Se è ingenuo pensare che questo modello sia esente da problemi, è ancora più ingenuo pensare che la presenza di problemi ancora irrisolti possa esentarci dal prendere in considerazione gli elementi positivi e dal fare un raffronto col nostro modello culturale e con i problemi del nostro contesto sociale. Un raffronto impietoso, se consideriamo che gli Stati Uniti rappresentano ancora un contesto sociale “fertile”, in cui il merito viene valorizzato e le opportunità date creano nuove opportunità per tutti, mentre in Italia si ha sempre più la sensazione di vivere in un conteso sociale “sterile”, in cui il merito viene troppo spesso mortificato e le opportunità per alcuni determinano meno opportunità per tutti. Ovviamente questa è una estremizzazione, che però ci mostra una tendenza fortemente divergente fra i due contesti sociali.

Di fronte alla testimonianza di Nadella, tuttavia, è troppo facile dire: se fossimo negli Stati Uniti, anche noi saremmo in grado di porci obiettivi ambiziosi e di impegnarci per perseguirli; ma siamo in Italia, e questo non è un paese che offre opportunità, non è un paese in cui i sacrifici e l’impegno consentono di raggiungere ruoli lavorativi prestigiosi e ben retribuiti. Se la considerazione sulla differenza dei due contesti sociali può essere facilmente condivisa, essa comunque non giustifica un atteggiamento di rinuncia. Il problema è infatti un altro: siamo in grado di dare un contributo al cambiamento? E per farlo, quanto siamo disposti a cambiare i nostri comportamenti e le modalità con cui esercitiamo i nostri ruoli?

Nadella dice che talvolta sottostimiamo quello che possiamo fare per fare in modo che le cose succedano, mentre sovrastimiamo quello che gli altri devono fare per farci progredire. Quanti si riconoscono in questa affermazione? Ogni qualvolta assumiamo questo atteggiamento, stiamo implicitamente legittimando lo stato di fatto. Dobbiamo allora porci nella prospettiva opposta. E per farlo dobbiamo iniziare a ripensare ai nostri comportamenti e ai nostri ruoli lavorativi, in sintesi ai nostri ruoli sociali, come al frutto di una nostra scelta, non come alla conseguenza di un’assenza di opportunità; anche perché la scienza del comportamento ci dice che esiste sempre almeno un comportamento alternativo. Questo significa che, piuttosto che occupare male un ruolo sociale, è meglio non occuparlo, anche perché il modo più diretto di rendere sterile un contesto sociale è quello di rendere sterile il proprio ruolo sociale. Certo, non è facile rinunciare a un ruolo lavorativo, anche se “non è quello che avremmo voluto fare nella vita”; ma abbiamo comunque sempre una alternativa: comportarci come se fosse il ruolo che avremmo voluto occupare. Potrebbe sembrare un atto eroico; in realtà è un cambiamento di prospettiva che consentirebbe a ognuno di “trovare un significato nel proprio lavoro” e di “rendere il mondo un posto migliore” (perché, sempre per citare Nadella, “il lavoro migliore si ha quando uno sa che non è solo lavoro, ma qualcosa che migliora la vita di altri”). In questa chiave di lettura, hanno un significato non banale anche altre affermazioni contenute nella mail; ad esempio, dire che “se si smette di imparare, si smette di fare cose utili” non significa pretendere di essere pagati per imparare, bensì imparare cercando di fare sempre meglio quello per cui si è pagati; “avere fame di più successo” significa voler aumentare la “capacità di avere un impatto” sulla società (di “fare la differenza”) e “incorporare questo valore in tutto quello che facciamo”.

In sintesi, se riflettiamo attentamente, recuperare la consapevolezza che esiste sempre un’alternativa ai nostri comportamenti e “scegliere” di comportarci come se il ruolo sociale che occupiamo fosse quello che avremmo sempre voluto occupare, darebbe un significato molto operativo alla suggestiva affermazione “credere nell’impossibile e rimuovere l’improbabile”. Se ognuno si impegnasse in questo sforzo, l’Italia potrebbe essere un paese diverso.

P.S. In questa discussione (incontro del 29 marzo 2014) abbiamo fatto ricorso a un linguaggio spesso esortativo e deontologico, pur consapevoli che gli spunti offerti dalla mail di Nadella andrebbero analizzati e approfonditi in termini più rigorosi. A noi è servito per stimolarci ad analizzare criticamente i nostri comportamenti; un passaggio necessario per porre le basi di quel cambiamento che ognuno di noi, individualmente e come gruppo sociale, vorrebbe realizzare. Per questo lo offriamo come spunto a chi volesse riflettere non solo sull’esigenza di un reale cambiamento culturale, ma anche sull’esistenza di opportunità (linee operative) per perseguirlo. Tutti possiamo “immaginare l’impossibile e realizzarlo”.