La lettura di un articolo sul confronto tra “un moderno uomo di governo di orientamento socialista, Stefano Fassina (viceministro dell’Economia e leader del Partito democratico), il liberista non dogmatico Alberto Bisin (professore di Economia presso la New York University) e un mezzo liberale come il direttore del Foglio ha stimolato un’animata e partecipata discussione sui temi della competitività, della crescita e della sostenibilità del welfare state così come finora è stato concepito in Italia; ad iniziare dalle problematiche del mercato del lavoro e delle politiche sociali e fiscali che incidono sullo stesso.

Il discorso si è inizialmente concentrato sul problema di orientare il sistema di tutele verso il lavoratore e non più verso il lavoro, in modo da eliminare la destinazione di risorse pubbliche al mantenimento di realtà improduttive e favorire invece il loro impiego per realizzare un mercato del lavoro più flessibile. Una politica che potrebbe essere correttamente orientata verso il matching fra domanda e offerta di lavoro e quindi porsi come un intervento pubblico volto a favorire una forma di ottimizzazione dell’assegnazione dei ruoli lavorativi ai soggetti più compatibili per conoscenze, competenze, atteggiamenti e skills; a tutto vantaggio della produttività totale del sistema. Da questo punto di vista, emerge subito una differenza di impostazione quando si parla di forme di sostegno al reddito (reddito di cittadinanza), piuttosto che di sostegno nelle fasi di ricerca di occupazione (aspi). Inoltre, è emersa l’esigenza di strutturare un sistema di protezione del lavoratore che non rinforzi comportamenti dilatori rispetto all’inserimento nei ruoli lavorativi; un rischio che non può essere sottovalutato in un contesto culturale come il nostro, che si è adattato alle regole del gioco della redistribuzione piuttosto che a quelle della produzione (v. discussione del 27 luglio sul discorso di Marchionne). D’altra parte, però, non può essere sottovalutata la difficoltà sul lato della domanda del lavoro (per i problemi di competitività e per gli eccessivi vincoli che regolano i rapporti di lavoro); ed è inutile, da questo punto di vista, l’appello alla politica perché lo Stato “crei” posti di lavoro. Anche il problema del cuneo fiscale non può essere affrontato in modo isolato, perché ripropone il problema dell’entità della spesa pubblica e del conseguente livello di tassazione; cioè il problema della riallocazione delle risorse dal settore privato al settore pubblico e il problema dell’austerità. Austerità che, data la configurazione del contesto recessivo italiano, dovrebbe essere attuata non con ulteriori aumenti di tasse, ma con tagli della spesa pubblica. Questo tuttavia non implica necessariamente una riduzione di servizi pubblici; è infatti molto diffusa la percezione di “sprechi” diffusi, soprattutto nel settore pubblico, e di “incrostazioni” (o “rendite di posizione”) nel processo che va dalla destinazione di risorse alla erogazione del servizio, che ne riducono la portata rispetto alla fruizione (quantitativa e qualitativa) degli utenti. Qualsiasi decisione sulla spesa pubblica, non solo in riduzione ma anche in aumento, non può perciò eludere l’esigenza di utilizzare “correttamente” le risorse scarse di cui si dispone.

Alla luce di queste prime considerazioni, i veri temi sembrano quindi essere quelli introdotti da Bisin: la total factor productivity (TFP) e l’efficienza. Due concetti che richiamano tanto alla produttività del lavoro, quanto alla produttività del capitale; tanto al settore privato (mercato), quanto al settore pubblico. Su questo punto è stato interessante osservare come Fassina, nell’esprimersi con riferimento al problema della scarsa TFP in Italia, abbia orientato la sua attenzione alla produttività del capitale e al mercato, criticando gli imprenditori in tema di scelte di investimento e dimensionamento delle unità produttive, mentre Bisin si sia concentrato sul settore pubblico, parlando della scuola, della sanità, della giustizia e delle infrastrutture; differenziazione di punti di vista che esprime due contrapposte visioni della società.

Il richiamo di Bisin alla scuola fra i fattori che incidono sulla bassa TFP in Italia (dove “questa produttività è completamente piatta da una vita”) ci ha fatto aprire una (lunga) parentesi sull’importanza del capitale umano e sociale. Le carenze dei processi di educazione, istruzione e formazione possono essere ricondotti all’insufficiente investimento di risorse pubbliche (oltre che agli “sprechi”), oppure ci sono altri fattori che concorrono a determinare lo scarso apporto della scuola alla TFP? Come affrontare il problema della valutazione dei docenti? A questo proposito si è parlato dell’opportunità o meno della valutazione dei docenti da parte degli studenti, anche in considerazione dell’asimmetria che caratterizza la relazione docente-discente e delle peculiarità del contesto italiano, con particolare riferimento al valore legale del titolo di studio e al modo in cui viene inteso il diritto allo studio (e ai residui della cultura del “sei politico”). Non si può trascurare il fatto che, in un contesto come il nostro, prevalga la logica dell’acquisizione del titolo piuttosto che quella dell’acquisizione di conoscenza (rischio che il Prof. Bolacchi ci ha sempre ricordato, ricollegandolo anche al problema della funzione iperbolica di sconto). E non si può non riconoscere che questa logica viene rinforzata dal valore legale del titolo di studio, con distorsioni che incidono anche nel mercato del lavoro e nelle dinamiche interne alle organizzazioni.

Dal problema della valutazione all’interno della scuola, si è quindi passati al problema della valutazione nella pubblica amministrazione e nel settore pubblico: chi può valutare chi? Sulla base di quali criteri? E chi valuta il valutatore? Quanto incide la capacità professionale e l’interiorizzazione degli obiettivi dell’organizzazione da parte del lavoratore? È il grande problema della meritocrazia, particolarmente difficile da affrontare nella pubblica amministrazione, all’interno della quale occorrerebbe promuovere modelli organizzativi radicalmente diversi da quelli attuali. Per inciso: i problemi del merito e dell’efficienza, strettamente connessi, vengono in qualche modo risolti all’interno del mercato. In questo senso può porsi il problema della carenza in Italia di “cultura di mercato”; un problema richiamato anche nel discorso di Marchionne e rispetto al quale abbiamo formulato alcune considerazioni più generali nell’incontro del 27 luglio.

Questo problema, però, sembra ancora trascurato nel dibattito politico in Italia, così come trascurato appare il problema conoscitivo di estendere queste modalità operative (meritocrazia ed efficienza) anche all’interno del settore pubblico. Come è possibile estendere questi criteri al settore pubblico, con riferimento al quale manca quella forma di “controllo diffuso” che si esercita attraverso il mercato sul settore privato? Se nel mercato vale un principio di marginalità, che determina (in relazione al corretto funzionamento del mercato stesso) la permanenza o l’uscita dal mercato dell’impresa privata, quali criteri possono individuarsi con riferimento all’operato della pubblica amministrazione e in che modo tali criteri dovrebbero essere fatti rispettare?

Il dibattito sui costi standard si orienta nel senso di una maggiore efficienza dei servizi pubblici e pertanto dovrebbe essere valutato con molta attenzione. Resta tuttavia problematica la definizione delle regole che dovrebbero garantire l’attuazione. La presenza di un numero relativamente limitato di operatori, la possibilità che gli stessi possano segnalare un loro “posizionamento” rispetto ai costi sostenuti, una convergenza di interessi degli stessi operatori verso il mantenimento di un margine di discrezionalità operativa (che ci riporta direttamente al problema che il Prof. Bolacchi ha approfondito in termini di potere deviante) sono condizioni che rendono particolarmente critica l’implementazione di tale criterio. La presenza di un contesto chiuso, in cui i giocatori possono segnalare le rispettive preferenze rispetto alle funzioni di costo, ci ha fatto pensare a una situazione di tipo oligopolistico e alle difficoltà di operare politiche di antitrust. Così come nelle situazioni di tipo oligopolistico, anche nell’implementazione di un sistema di costi standard occorre prevedere i possibili effetti complessivi; in particolare, un possibile aumento del costo medio, che potrebbe associarsi all’eliminazione delle situazioni di inefficienza più marcate, ma anche di quelle più virtuose, in attuazione di un accordo tacito a salvaguardia dei margini di discrezionalità operativa dei vari soggetti. Ci si deve porre anche il problema della disomogeneità dei differenti contesti operativi e la conseguente necessità di operare opportune ponderazioni che tenga conto delle specificità dei differenti contesti; una esigenza che non può essere ignorata, ma che individua ulteriori margini di contrattazione, la cui corretta gestione è sempre esposta all’esercizio di un potere deviante.

Ciò non toglie validità al tentativo di individuare criteri di tipo economico-contabile quali indicatori delle situazioni di inefficienza, ma evidenzia la difficoltà dell’affidarsi esclusivamente a tali criteri (che fra le altre cose andrebbero a rilevare le situazioni negative a posteriori) per risolvere una reale criticità per il nostro paese: quello della spesa pubblica. Il problema non può pertanto non essere ricondotto in modo diretto alla gestione dei ruoli e all’uso dei ruoli in funzione degli interessi pubblici. Può il problema dell’uso dei ruoli pubblici essere impostato come un problema di meritocrazia, soprattutto con riferimento ai ruoli (quelli manageriali) che all’interno delle varie organizzazioni dovrebbero maggiormente incidere sul raggiungimento degli obiettivi predefiniti?

La carenza di meritocrazia viene diffusamente indicata come uno dei fattori più negativi del contesto sociale italiano, con valutazioni spesso proposte anche in termini eticamente e moralmente negativi. Noi abbiamo voluto esercitare un’analisi critica anche con riferimento a questa posizione. Per farlo ci siamo posti una semplice domanda: è possibile che un sistema quale quello della pubblica amministrazione e di tutte le sue ramificazioni si regga, e dimostri una tale resistenza al cambiamento, se non esiste un sistema di regole molto forti, e in qualche modo interiorizzate, al quale la gestione dei ruoli pubblici si conforma? La risposta non può che essere negativa. Se prescindiamo da definizioni di tipo valutativo e, seguendo gli insegnamenti del Prof. Bolacchi, definiamo la meritocrazia come conformità a un paradigma, dobbiamo necessariamente dedurre che anche nel settore pubblico deve comunque esistere una qualche forma di meritocrazia, cioè un insieme di regole alle quali i soggetti che ricoprono ruoli pubblici si conformano, in modo molto stretto. Ma sono evidentemente regole incompatibili con quelle del mercato.

Quali cultori degli studi sociali e organizzativi commetteremmo un grave errore se pensassimo che il fatto di non riscontrare, in un dato contesto sociale o organizzativo, comportamenti compatibili con le regole poste come punto di riferimento dell’analisi denoti una assenza di regole. In realtà, il problema è che ci sono altre regole, molto forti e consolidate, rispettate all’interno di quel contesto, che occorrerebbe modificare. E se le regole riflettono anche gli obiettivi dell’organizzazione, questo significa che esistono obiettivi diversi rispetto a quelli che noi riteniamo debbano essere propri di quel tipo di organizzazione. Il problema non è quindi a ben vedere un problema di efficienza, che implica unicamente che si intervenga sui costi sostenuti per raggiungere un dato obiettivo, bensì un problema più profondo di ridefinizione degli obiettivi e, conseguentemente, di ridefinzione delle regole e delle modalità di gestione dei ruoli. E questo ci dà il senso della dimensione sociale e culturale del problema e della relativa marginalità degli interventi tecnico-economicistici.

Questo è l’inquadramento più generale che siamo riusciti a dare, allontanandoci dall’analisi del testo di partenza e consapevoli che abbiamo aperto e superficialmente affrontato un insieme di problematiche che andrebbero tutte approfondite. Un quadro, comunque, nel quale riteniamo possano trovare posto le analisi più specifiche relative alle situazioni particolari.

In questo incontro abbiamo affrontato, ad esempio, il problema del difficile rapporto fra il settore bancario e il settore privato: uno snodo importante rispetto alla relazione fra risparmio e investimento, che incide direttamente sulle condizioni in cui può essere esercitata l’attività imprenditoriale e che può farci affermare, una volta di più, che l’Italia non è un paese per imprenditori. L’attività imprenditoriale non dovrebbe, infatti, essere limitata dalla disponibilità di capitale da parte dell’imprenditore, ma unicamente dalla sua capacità di remunerarlo, al pari di tutti i fattori della produzione; capacità che deriva dall’abilità nel combinare i fattori produttivi. Anche il problema del sistema creditizio può essere analizzato in termini di carente definizione di obiettivi e regole del gioco; basti pensare all’ampia discrezionalità del management bancario rispetto alle opzioni di scelta fra diverse forme di impiego, alle forme di privatizzazione bancaria in cui incide fortemente l’azione di orientamento politico, alla possibilità che la banca ha di operare su diversi mercati fortemente differenziati in termini di valutazione, ripartizione e assunzione di rischi (che alimenta, fra le altre cose, il fenomeno del cosiddetto “azzardo morale”). Per un privato, la possibilità di accedere a finanziamenti pubblici è altrettanto problematica e il tentativo di limitare la discrezionalità dei soggetti preposti alla loro erogazione attraverso regole, criteri e formulari rigidi, che non corrispondono alle diverse specificità dell’attività imprenditoriale e che non riescono a recepirne l’elemento dell’innovazione, ne rende ancora più difficile la corretta allocazione. L’argomentazione che un soggetto particolarmente intraprendente possa comunque sopperire anche alle difficoltà di acquisizione dei capitali non può comunque eliminare la connotazione negativa del contesto sociale in termini di compatibilità con le regole e la cultura di mercato. Ed è con questa cultura che dobbiamo confrontarci.